Tra le cose che mi hanno reso più felice ultimamente, c'è di certo la riscoperta di Dark Souls. Non prendete le parole che seguono come una specie di recensione, o come qualcosa che abbia anche solo l'ombra di un intento giornalistico. Non ho alcuna intenzione di mettermi qui a parlare del bello e del brutto, di cos'è e cosa non è. La questione è semplice: sono entusiasta della mia esperienza su Dark Souls, e ho voglia di sfogare un po' di quella euforia su questo blog. Non c'è nient'altro.
Ho portato questo cruccio con me per qualche anno, poiché alla fine si tratta di un'opera artistica, e l'arte è sprecata se non ci muove in qualche modo. Se anche ne avessi avuta una conoscenza tecnica, per dir così, completa e puntuale (che comunque non possedevo), essere indifferente al significato umano di Dark Souls, o comunque non essere riuscito a trarne uno, mi avrebbe comunque lasciato una bella frustrazione.
Non sono neanche del tutto sicuro che gli stessi sviluppatori siano consapevoli fino in fondo della portata e delle implicazioni di un progetto simile: di fatto, in Dark Souls, il giocatore con un po' di voglia di ragionare si ritrova non solo a compiere lo sforzo sportivo del gioco (che, beninteso, è bellissimo e non ha bisogno di essere "elevato" ad alcunché, come ho invece letto a volte), e non solo a bearsi delle suggestioni artistiche di un'opera di grande valore, ma anche a impegnarsi nel lavoro linguistico della fantasia, per sua definizione collettivo, democratico, che astrae, interpreta, inventa. E poi restituisce, alla cultura condivisa dal parlante, il frutto di quel lavoro.
Ci feci già un paio di partite complete, anni fa, ma senza approfondirlo più di tanto. Al tempo non riuscii ad entrare nell'ambientazione, a tenere un approccio ruolistico, a indagare la storia e fantasticarvi come si deve. Giocai con la pura mentalità della sfida, consapevole del contesto narrativo quel tanto che bastasse ad orientarmi, ma senza innamorarmene davvero.
Non ero quindi completamente ignorante su Dark Souls, ma neanche mi sentivo soddisfatto di quanto l'avessi approfondito e amato, nonostante ci avessi probabilmente comunque giocato più di altri che lo decantano in lungo e in largo.
| Questo è il mio primo pg, Amy. Non avevo pensato tantissimissimo al nome. |
Ho portato questo cruccio con me per qualche anno, poiché alla fine si tratta di un'opera artistica, e l'arte è sprecata se non ci muove in qualche modo. Se anche ne avessi avuta una conoscenza tecnica, per dir così, completa e puntuale (che comunque non possedevo), essere indifferente al significato umano di Dark Souls, o comunque non essere riuscito a trarne uno, mi avrebbe comunque lasciato una bella frustrazione.
Non che sia un obbligo trovare bellezza in tutto, ma tendo ad esigerlo il più possibile da me stesso: un pensiero coinvolto è meglio di un pensiero indifferente, e finché la scelta sta a me preferisco essere pieno e felice, anziché vuoto e misero. Soprattutto quando è chiaro che la bellezza è lì, quasi a portata di mano.
Insomma, nell'ultimo mese ho rigiocato a Dark Souls, più volte di fila, dedicandogli un'attenzione finalmente solerte e vivace.
Ho giocato di ruolo, cercando di dare una collocazione al mio personaggio nel contesto narrativo, il che mi ha spinto a tentare il più possibile di decifrare quel contesto, di raccogliere informazioni, interpretarle, tentare di dare loro senso. Ho fatto ricerche, letto teorie, e credo di essere riuscito a dare un senso a tutti i dubbi che mi premevano di più. E alla fine mi sono completamente innamorato di Dark Souls, è rapidamente diventato uno dei miei videogiochi preferiti.
Non voglio ascrivere il piacere e gli stimoli che mi sta dando ad alcuna sua dote particolare nuovamente scoperta, anche perché come fosse fatto Dark Souls, quali sue caratteristiche io ritenessi pregi e quali difetti, lo sapevo già. Alla fine la ragione è la stessa che mi porta ad amare i giochi di ruolo in generale, soltanto acuita da un ruolo più attivo nella ricostruzione e nell'interpretazione del mondo, degli spazi e degli oggetti del gioco: quel lavoro fantasticante, dai profumi così letterari, che va dalle speculazioni sul ruolo di Velka nella rovina di Petite Londo, alla scelta dell'arma preferita e di come potenziarla. Anzi, spesso il percorso è inverso. Ma è in ogni caso straordinario come tutti gli elementi del gioco si rispondano nel racconto, e come quel racconto, alla fine, sia il risultato di un lavoro esegetico da parte del giocatore.
| Oh, ma certo, il corvo! Il corvo di Velka! Il corvo scelto appositamente da Velka! Velka e il suo corvo! ...quel corvo? |
Non sono neanche del tutto sicuro che gli stessi sviluppatori siano consapevoli fino in fondo della portata e delle implicazioni di un progetto simile: di fatto, in Dark Souls, il giocatore con un po' di voglia di ragionare si ritrova non solo a compiere lo sforzo sportivo del gioco (che, beninteso, è bellissimo e non ha bisogno di essere "elevato" ad alcunché, come ho invece letto a volte), e non solo a bearsi delle suggestioni artistiche di un'opera di grande valore, ma anche a impegnarsi nel lavoro linguistico della fantasia, per sua definizione collettivo, democratico, che astrae, interpreta, inventa. E poi restituisce, alla cultura condivisa dal parlante, il frutto di quel lavoro.
È necessario specificare, visto quanto siamo sempre portati a vivere i videogiochi come prodotti di consumo soggetti ai nostri giudizi e valutazioni, e ad attribuire al mito del "design" la responsabilità demiurgica di ogni cosa, che non è Dark Souls a fare questo. O almeno, non solo. Dark Souls, come tutti i giochi di ruolo, come tutti i terreni letterari della fantasia, non impone ad alcuno alcuna cosa: abilita, al più, e stimola. Non fa: consente di fare. Tant'è che non ha neanche bisogno di essere perfetto, per funzionare perfettamente.
È un parco giochi della fantasia, pieno di giostre e altalene, di combattimenti, di dialoghi, di danni che scalano e bottini che non droppano. Ma il gioco non è solo il parco, con le sue attrazioni più o meno colorate, riuscite, sicure, efficienti, adeguate o inadeguate: è ciò che vi facciamo, il che mi interessa molto di più, perché è qualcosa di nostro, che ci appartiene.
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