FINAL FANTASY - Recensione


Questo articolo è disponibile anche in formato video cliccando qui.

È da un sacco di tempo che non pubblichiamo recensioni qui su ARB, e la scelta di interrompere questo silenzio con un video/articolo sul primissimo Final Fantasy potrà forse ad alcuni sembrare bizzarra. Di solito le recensioni riguardano uscite recenti, e vi si parla in modo piuttosto standardizzato, dando un quadro generale sulla qualità del prodotto per aiutare il consumatore a orientarsi. Non penso ci sia nulla di sbagliato in questo, non voglio fare una polemica, ma solo chiarire che questa e le prossime recensioni pubblicate da me su ARB saranno un po’ diverse. Non solo mi piace molto l’idea di raccontarvi videogiochi che hanno una certa età, trattandoli come le opere vive, presenti e fruibili che sono, ma voglio farlo senza perdere tempo in tutte quelle piccole cerimonie cui il rituale delle recensioni ci ha abituati: niente comparto tecnico, comparto artistico, mole poligonale, gameplay, sonoro e così via. Non voglio imporre a voi il supplizio di sorbirvi informazioni superflue e non voglio sottopormi alla noia di doverle scrivere. In questa e nelle prossime recensioni parlerò ovviamente dal mio stretto punto di vista, senza alcuna pretesa enciclopedica, e andando a descrivere e discutere soltanto quegli aspetti del gioco su cui credo di avere qualcosa di personale e di interessante da dire.

Un gioco di ruolo occidentale

Quando si parla di Final Fantasy, il pensiero corre subito verso quelli che sono i capitoli più famosi, quelli che godono del maggiore prestigio nelle nostre comunità, oppure verso i più recenti a chiacchierati; di rado si spinge più a ritroso, verso i titoli dell’era Nintendo. Forse a escluderli dalla nostra memoria è una storia di pubblicazione che li ha portati sugli scaffali europei solo molti anni più tardi, ma forse c’entra anche un po’ il fatto che di Final Fantasy si chiacchiera più di quanto ci si giochi, e anche qualora si reputasse VII un po’ troppo inflazionato per farne oggetto di vanità, e si scegliesse di rivolgerla al suo predecessore, quell’esibizione di appartenenza al franchise non ha ancora risalito la china di Final Fantasy VI, per trovare al di là di essa quei videogiochi originali che, secondo me, in barba a tutte le retoriche di autenticità sui veri Final Fantasy di una volta, non ricevono ancora le attenzioni che meriterebbero.

Quel che è certo è che se si vuole capire e conoscere Final Fantasy, bisogna partire dall’inizio, da quel primo capitolo così importante e originale. Eppure ha anch’esso bisogno di essere collocato nel suo contesto storico: l’esistenza di una fantasia finale può forse indurre qualcuno a credere che ne esista una iniziale, ma non è così che funzionano le cose: ogni storia risponde a un’altra, e questo non può che essere particolarmente vero per un videogioco nato nel grembo della cultura ruolistica, ma anche nel pieno solco della narrativa fantastica, vale a dire la narrativa tradizionale e collettiva per eccellenza, quella degli archetipi e della permanenza.

Chi volesse indagare le origini di Final Fantasy, sarebbe certamente tentato di fare una ricerca sulla storia dei JRPG. Io credo che sarebbe già un piccolo errore. L’anno scorso Naoki Yoshida si attirò le ire di alcuni giocatori, quando disse di non amare l’etichetta “JRPG”, e di trovarla anzi persino discriminatoria. Per quanto sia comprensibile avvalersi di questo acronimo per comodità, devo ammettere di trovarmi d’accordo con il director di XIV. In parte perché credo sia praticamente impossibile inventarsi una definizione formale coerente che inchiodi la ruolistica giapponese come un genere distinto, ma anche perché temo che qualsiasi tentativo in questa direzione sarebbe inquinato da un’altra distinzione, a mio avviso molto più importante, e cioè quella delle piattaforme: nonostante lo sviluppo giapponese abbia per tanti anni prediletto il mondo console, si era inizialmente rivolto anche ai PC, come l’FM-7 o il PC-98. Senonché le macchine giapponesi avevano bisogno di una risoluzione più elevata, per accomodare i loro caratteri, il che finì con l’avere un’influenza sul design dei videogiochi. Ma al di là delle opinioni di ognuno a riguardo, ciò che mi interessa in questa sede è il rifiuto, da parte di Yoshi-P, di una sorta di ghettizzazione culturale, per cui il gioco di ruolo giapponese sarebbe chiaramente distinto e autonomo rispetto a quello occidentale, e la rivendicazione invece di una piena appartenenza alla tradizione ruolistica globale. Non solo i videogiochi, ma tutto il fantasy giapponese ha fin dall’inizio cercato le proprie ispirazioni ben oltre le sponde nipponiche, attingendo liberamente alla storia, all’architettura, alle mitologie, alle religioni europee e non solo, e partecipando al gusto estetico, letterario e tematico di Dungeons & Dragons, di Tolkien, di artisti come Clyde Caldwell.

A sinistra Dragons of Triumph (1986), un modulo di Dragonlance. A destra un'immagine di Cronache della Guerra di Lodoss.

Se è vero che il successo di Dragon Quest convinse Square a produrre giochi di ruolo, l’ispirazione principale è da ricercare piuttosto in Wizardry e Ultima, di cui gli sviluppatori di Final Fantasy erano grandi fan, in particolare Akitoshi Kawazu. Ma al di là dell’aneddoto biografico, la vicinanza culturale è immediatamente osservabile nel gioco. L’esempio più ovvio è forse il sistema di magia, basato sugli slot incantesimo di Dungeons & Dragons, e sempre tributarie di D&D sono le debolezze elementali, nonché la struttura aperta del party, mentre la possibilità di usare le armi in battaglia come consumabili è presa direttamente da Wizardry.

Mi rendo conto che questo discorso può suonare strano, visto che siamo abituati a concepire i generi sulla base di categorizzazioni più commerciali che formali e tematiche: la suddivisione degli scaffali nei negozi o dei tag di Steam prevale sull’analisi e sulla comprensione dei movimenti e delle culture. Credo che occorra sviluppare, se non la si possiede già, la capacità di distinguere tra queste diverse accezioni della parola “genere”, perché anche se pensiamo che quella dei JRPG sia una categorizzazione utile e valida, e sicuramente ha la sua utilità e validità, questo non deve impedirci di fare i conti con un semplice, banale dato di fatto: Final Fantasy è anche, se non prima di tutto, un gioco di ruolo “occidentale”, per così dire.

Fiabe & Segrete

Quando Final Fantasy inizia (qui il riferimento è la versione Pixel Remaster del gioco) siamo accolti da qualcosa di molto speciale: una rudimentale creazione del personaggio. Si tratta di una pratica piuttosto rara nella ruolistica giapponese. Ci sono alcune importanti eccezioni, come Dragon Quest IX, Dark Souls, Xenoblade Chronicles X, Nioh 2, Fantasy Life, Dragon’s Dogma; di solito però i personaggi sono predeterminati, hanno un nome canonico, una storia, un carattere, un aspetto fisico, delle relazioni, dei limiti più o meno stringenti sulla progressione e sull’inventario. In Final Fantasy no, Final Fantasy inizia come una campagna di Dungeons & Dragons: con la scelta della classe e del nome del personaggio. Non c’è n’è neanche uno in qualche modo più centrale degli altri. Si vede che il Dungeon Master non voleva fare favoritismi.


Segue un filmato introduttivo che conduce lo sguardo del giocatore attraverso alcuni paesaggi del mondo di gioco, un mondo avvolto dall’oscurità. Per fortuna una profezia ha annunciato l’arrivo di quattro Guerrieri della Luce, ed eccoli lì, dopo un lungo viaggio, ognuno con un cristallo in mano. L’asciutta magrezza della premessa narrativa, figlia dei limiti tecnici e produttivi dell’epoca (ma non solo, come vedremo più avanti), oggi può forse far credere che il primo Final Fantasy, a differenza dei successivi, non sia poi così interessante da un punto di vista narrativo; o peggio, può far sorridere dell’ingenua banalità che fa da pretesto all’avventura.

A me però le storie banali sono sempre piaciute. In Norvegia esiste questo bizzarro fenomeno culturale dell’elg i solnedgang, l’alce nel tramonto. Si tratta di un motivo artistico molto ricorrente, qualcosa di tradizionale, forse conservatore per qualcuno, ma anche rassicurante a suo modo, nella sua nitida semplicità. Un po’ come il centrino di pizzo sul tavolo della nonna, una scala pentatonica o la locuzione: “C’era una volta…”


In un certo senso, si può anche dire che “banale” è solo un altro modo per dire “archetipico”, qualcosa che ritorna di storia in storia, di secolo in secolo; e non lo fa perché gli scrittori non avevano idee, ma perché è così che funziona la tradizione narrativa. Capita che i critici dicano cose come “è derivativo”, “non è molto innovativo” o “sa di già sentito”. Ma tutte le storie sono già sentite, se uno ha letto abbastanza. Non sarà facile trovare una fiaba che non abbia la sua selva oscura o il suo Merlino: la vaga essenzialità di quel buio che in Final Fantasy avvolge il mondo è la stessa di Morgoth, di Takhisis, di Alberico o dell’Innominato. Un’idea banale, in letteratura, è un’idea forte di tutte le altre idee di cui, in modo più o meno fortuito, e più o meno vago, riecheggia. Anzi, c’è anche chi direbbe che la stessa funzione della letteratura, e quindi anche della narrativa videoludica, è quella del kolossos, e non parlo del boss di Final Fantasy X, ma di una delle forme più antiche di monumento funebre: scriviamo per non essere dimenticati, e ripetiamo sempre le storie che non vogliamo dimenticare.

Questo per dire che secondo me non bisogna sottovalutare la semplice e rudimentale narrativa di Final Fantasy. Anche perché la sua relativa marginalità libera all’immaginazione quello spazio che i capitoli più loquaci hanno invece ristretto. La mia rivendicazione potrà sembrare bizzarra, ma mi è capitato di leggere in “A Guide to Japanese Role-Playing Games” che “siccome non c’è molta storia, non c’è neanche una gran ragione di giocarci, a parte la sfida e l’avere esperienza dell’origine di alcuni motivi ricorrenti di Final Fantasy.”

Non si può provare altro che meraviglia di fronte alla miracolosa capacità sintetica del linguaggio, in grado di condensare, in così poche parole, un tale numero di sciocchezze. E tuttavia questo svarione dell’enciclopedia dei JRPG mi torna piuttosto utile, perché a partire da esso posso dire gran parte di ciò che mi interessa su Final Fantasy.

Final Fantasy ha tutta la storia che vogliamo

Final Fantasy, come abbiamo detto, è un videogioco povero di narrativa esplicita in senso stretto, e questa povertà è sicuramente dovuta anche ai limiti tecnici dell’epoca. Questo però non vuol dire che ci sia poca “storia”. Mi rendo conto che il seguente può sembrare un puntiglio bizzarro, ma io credo che ci sia bisogno di scardinare la convinzione che il cosiddetto “comparto narrativo” di un videogioco, soprattutto se parliamo di giochi di ruolo, sia fatto di dialoghi, filmati, descrizioni, diari e così via. È certamente fatto di tutte queste cose, o meglio, questi sono gli strumenti di cui lo sviluppatore si serve per raccontare una propria storia, intesa come una serie di fatti cronologicamente ordinati, dotata di un significato umanistico. Può tuttavia usarli anche in altro modo, anzi, è inevitabile che lo faccia: costruire uno spazio narrativo. I mondi videoludici non sono solo fatti di scarpate, pianure, mari e fiumi, ma dalla nozione della loro esistenza. Il gesto di un personaggio non è soltanto qualcosa che subiamo, ma è qualcosa con cui ci relazioniamo, a volte anche meccanicamente; è un’informazione che informa la nostra azione in modi anche imprevedibili; è il carburante di un motore interpretativo che va ad animare un’altra storia, l’altra faccia di quel “comparto narrativo”, una storia che nel codice non si trova, che non esiste nelle sinossi di Wikipedia, e di cui non si parla nelle recensioni.

Forse è il caso di fare alcuni esempi. Se abbiamo appena iniziato The Witcher 3, potremmo dire che la storia vede Geralt e Vesemir sulle tracce di Yennefer, quando i due viaggiatori vengono aggrediti da alcuni ghoul. Ma la storia di The Witcher 3, nell’esperienza del giocatore, è anche che Geralt fu colpito due volte da questi ghoul; o magari Geralt è stato particolarmente bravo, e non ha sofferto alcuna ferita; forse per errore ha usato la spada sbagliata, e una volta sconfitti gli avversari ha deciso di discendere il pendio su cui stava sostando per esplorare i dintorni. Sono tutti piccoli eventi che sono successi, non meno di quanto sia successo l’attacco scriptato dei ghoul. Gothic 3 è un videogioco pieno zeppo di narrativa, ma se uno mi chiedesse quale sia la sua storia, nel senso comune, farei un po’ fatica a rispondere: dipende, tu cosa hai fatto? Quasi tutto quello che può succedere in un videogioco ha valore narrativo, non solo il filmato e il dialogo, ma anche trovare un’arma migliore, decidere di esplorare il faro di Ardea o mangiare un panino.


Tornando a Final Fantasy, sì, la sua storia esplicita, tradizionale, è piuttosto povera: quattro eroi predestinati devono sconfiggere i demoni elementali per salvare il mondo dall’antagonista di turno. E per farlo hanno bisogno dei classici aiutanti e di qualche oggetto, più o meno magico, da trovare nel corso dell’avventura. Ma il valore narrativo di Final Fantasy è molto di più. Non è solo l’emozione di sbloccare la canoa o la nave, il colpo di scena sull’antagonista, il piacere di un’avventura semplice e familiare, o la magia della caverna di Matoya, con la sua musica inconfondibile e le sue scope incantate: è anche aver trovato quel dungeon in modo accidentale, aver parlato o non aver parlato con l’NPC in possesso di una particolare informazione, è decidere dove andare, perché farlo, aver incontrato o no il famigerato Warmech, ed è anche trovare difficoltà con un certo nemico, perché la squadra di soli maghi bianchi forse non è stata un’ottima idea.

Nel suo piccolo, Final Fantasy offre un mondo abbastanza ampio e libero da accettare l’azione del giocatore in una moltitudine di modi diversi, e abbastanza vago e asciutto da consentire quel lavoro ermeneutico e creativo che è l’anima della ruolistica. A volte ho l’impressione che si scivoli con troppa facilità in un’attitudine passiva verso i videogiochi di ruolo, e si finisca a pensare che la storia sia qualcosa che si subisce, un intrattenimento servito su un piatto d’argento. E invece, proprio come i punteggi e gli achievement, anche la narrativa va meritata, ed è impossibile farlo senza la giusta attitudine di partenza: il videogioco non deve fare tutto il lavoro, anzi, a volte il videogioco non deve fare quasi niente. Del resto tutta la storia di Wizardry era “un mago ha rubato il mio amuleto, andate nel dungeon a recuperarlo”.

Un paio di ottime ragioni per giocarci

Ho sentito dire spesso che la cosa più importante dei Final Fantasy è la storia, e quindi l’opinione secondo cui non varrebbe poi tanto la pena di giocare a questo primo capitolo, non mi coglie alla sprovvista. Per quanto ovviamente anch’io sia sempre stato innamorato delle storie di Final Fantasy e ne riconosca l’importanza, faccio molta fatica a capire l’idea per cui un Final Fantasy giudicato narrativamente debole dovrebbe essere un’esperienza più difficile da consigliare. Anche senza fare tutto il discorso sul valore narrativo delle meccaniche di gioco, parliamo di videogiochi in cui la maggior parte del tempo si passa a combattere in scontri casuali, esplorare, gestire l’inventario e, più in generale, interagire. Il motivo principale per giocare a Final Fantasy, a mio avviso, è che sono dei videogiochi affascinanti, e il primo non fa eccezione. Anzi, proprio grazie alla sua semplicità, mi sembra che il primo Final Fantasy raggiunga quella che non fatico a definire come una perfezione formale, soprattutto nella versione Pixel Remaster.

Si tratta di un videogioco breve e snello, che costruisce tutto il proprio mondo con dialoghi lapidari, pochi motivi musicali e sistemi di gioco essenziali. O almeno, questo appare alla prospettiva di un giocatore contemporaneo, abituato a videogiochi di ruolo ormai di una ricchezza e vastità incomparabili con queste prime avventure. Ma possiamo fare il piccolo sforzo di calarci negli occhi del tempo. Prima di Final Fantasy c’erano stati ovviamente Wizardry e Ultima, ma anche Cosmic Soldier, Hydlide, Seiken Densetsu, Dragon Lair e Arfgaldt, il cui spelling in katakana è pressoché identico ad Alefgard, l’ambientazione originale di Dragon Quest. Final Fantasy non è quindi solo un videogioco molto cosmopolita, in grado di sintetizzare su una console giapponese una tradizione ruolistica globale e nata su PC, alla faccia delle barriere culturali, ma è anche un videogioco di una certa ambizione rispetto agli standard del suo tempo.


Appena terminato il filmato introduttivo ci ritroviamo nel mondo di gioco, alle porte della città di Cornelia, la città dei sogni, come la descriva una delle passanti. A questo punto possiamo fare un po’ quello che vogliamo, a me piace entrare subito in città, vedere cos’hanno da dire i suoi abitanti, e poi andare dal re, che ci chiede di andare a salvare la principessa, rapita dal cavaliere caduto Garland, e che in cambio riparerà il ponte a nord, aprendoci l’esplorazione delle regioni settentrionali. Quindi, come prima cosa, di solito mi metto a farmare un po’, gironzolando nei boschi vicino alla città, così da comprare alcuni incantesimi e guadagnarmi qualche livello. Da lì si entra nel solito loop, fatto di combattimenti, dungeon, e il classico oggetto che apre nuove possibilità esplorative, per dedicarsi a nuovi combattimenti e nuovi dungeon. So che molti trovano tedioso questo tipo di esperienza molto ripetitiva e meccanica, fatta di scontri casuali per lo più semplicissimi e che interrompono il movimento ad ogni passo, monete da spendere per comprare equipaggiamento e incantesimi, e livelli che salgono. Per quanto mi riguarda, invece, è un modello di gioco che amo. Non solo perché ho sviluppato un gusto per questi combattimenti ciclici, con i loro sprite affascinanti, le loro musiche, e le loro ricompense, ma anche perché in Final Fantasy, e in generale in tanti dei giochi di ruolo di quell’epoca, si può trovare una concezione della ruolistica un po’ più primitiva forse rispetto alla nostra. Oggi quando si pensa al gioco di ruolo, si pensa prima di tutto a una narrativa corale molto sviluppata, alle schede personaggio con 5 pagine di background, all’interpretazione, alla complessità poetica degli avvenimenti. A volte si finisce con il rincorrere standard piuttosto irrealistici, dove al Dungeon Master si chiede di essere un romanziere, e dai giocatori ci si aspettano doti interpretative degne di un attore o doppiatore professionista. In origine però il gioco di ruolo era molto più meccanico, molto più asciutto, e così non solo le vecchie campagne, ma anche i vecchi videogiochi che ne prendevano ispirazione, si componevano al 90% di dungeon con stanze e combattimenti in successione e oggetti o loot da raccogliervi. Lo sviluppo sempre maggiore di una contestualizzazione narrativa è avvenuto a poco a poco, negli anni, il che rende videogiochi come Final Fantasy delle preziose testimonianze di una cultura ruolistica piuttosto diversa dalla nostra, in cui un pretesto narrativo come “la principessa è stata rapita dal malvagio Garland, bisogna andare nel suo castello a salvarla”, non faceva storcere il naso a nessuno. Anzi, magari era anche un po’ più del necessario. Avete creato i personaggi, qui c’è il dungeon, buon divertimento.

Originalità e difficoltà

La guida ai JRPG che ho già menzionato sostiene che l’interesse di giocare a Final Fantasy, mancando una bella storia, risieda puramente nella sfida e nello scoprire l’origine di alcuni temi ricorrenti di Final Fantasy. Come ho già detto, non è un’affermazione che mi susciti particolare simpatia, in parte perché non credo che questo videogioco, per brillare, abbia bisogno di godere della gloria riflessa dei capitoli che l’hanno seguito, ma anche perché ha dato i natali a una minima parte di quegli elementi che rendono Final Fantasy riconoscibile. Ci sono un paio di melodie, c’è Matoya, c’è Garland, ci sono alcune creature, come Marilith, Tiamat o i Sahagin. Senonché questi ultimi sono, ad esempio, presi di peso da Dungeons & Dragons, e si dovrà attendere ancora un po’, prima di incontrare delle creature tipiche di Final Fantasy. I chocobo, ad esempio, sono stati introdotti in Final Fantasy II, i Sabotender (o Cactuar che dir si voglia) solo in Final Fantasy VI. Ci sono alcuni elementi molto importanti, come il tema dei cristalli, fortemente voluto da Koichi Ishii, ma forse il primo Final Fantasy non è il capitolo migliore per andare a fare i turisti dell’origine degli stilemi, e che chi nutrisse quel desiderio, farebbe forse meglio a prendere un volo diretto per i Forgotten Realms. E d’altra parte tutti i capitoli di Final Fantasy sono pieni di tributi verso un po’ tutti i loro predecessori, e se è vero che alcuni elementi sono più iconici di altri, è anche vero che la formazione dell’identità e dell’immaginario di Final Fantasy è un processo lento, graduale e ancora in corso.

Per quanto riguarda invece il problema della sfida, è ovviamente un argomento un po’ spinoso, e non solo perché la difficoltà è un elemento molto soggettivo, che ognuno vive in modo diverso, ma anche perché può variare in modo piuttosto sensibile in base all’edizione di Final Fantasy cui ci stiamo riferendo. Per fare un esempio banale, nella versione originale per NES il comando di attacco contro un avversario andava a vuoto se quell’avversario nel frattempo era stato sconfitto, anziché essere automaticamente reindirizzato contro un altro nemico. Può sembrare un’inezia, ma buona parte della difficoltà di questi videogiochi non risiede tanto negli scontri in sé, presi singolarmente, quanto nell’affrontare un dungeon di diversi piani senza finire le risorse, come gli slot degli incantesimi, gli oggetti curativi o i punti vita. Questo significa che un’inefficienza nell’utilizzo di queste risorse può creare alcune situazioni un po’ spinose. Ma più in generale mi sembra un’imprudenza mettersi a valutare in modo netto la difficoltà di videogiochi dotati di così tante variabili, parlando di progressione e di approccio ai problemi, ma anche dotati di un elemento di importante casualità negli scontri, nonché di un bilanciamento altamente variabile. Un’enorme differenza la fanno i livelli, i nemici spawnati, gli incantesimi in possesso dei personaggi, le stesse classi scelte all’inizio dell’avventura, e così via.

In generale però, se devo essere sincero, non credo affatto che il primo Final Fantasy presenti un livello di sfida tale da considerare quest’ultima una delle ragioni principali per giocarci. Al contrario, credo che sia un videogioco piuttosto approcciabile, che per essere completato non richiede nulla più di una comprensione superficiale delle sue meccaniche fondamentali, e magari ogni tanto un minimo di grinding. Però non dobbiamo prenderci in giro: giocare a un Final Fantasy significa quasi sempre affrontare combattimenti triviali uno dopo l’altro, in cui la strategia più efficiente è bersagliare gli avversari di attacchi semplici.

C’è da dire che finora mi sono riferito soltanto alle difficoltà del combattimento e dei dungeon. Final Fantasy presenta un’altra difficoltà, questa sì un po’ più spiccata, anche se certamente non proibitiva: la difficoltà dell’esplorazione. Non c’è un quest log, non ci sono obiettivi contrassegnati sulla mappa, e le informazioni o i consigli su come proseguire a volte ci sono forniti da NPC anonimi lì a pascolare nelle città, oppure occorre che ci ricordiamo cosa aveva detto un tale personaggio durante la scorsa sessione di gioco. Anche qui nulla di proibitivo, ma può capitare di bloccarsi in alcune situazioni. Forse questa però più che difficoltà del gioco in sé è lontananza da un linguaggio videoludico cui oggi siamo un po’ disabituati: Final Fantasy si aspetta che un giocatore esplori, parli con tutti, e magari si metta anche a gironzolare un po’ senza meta, per vedere cosa scopre. Il che credo si ricolleghi piuttosto bene con il mio precedente discorso sul valore narrativo del rapporto con gli spazi.


In conclusione, Final Fantasy è un videogioco affascinante, una vivida testimonianza del carattere cosmopolita della ruolistica giapponese, una finestra su un’altra epoca, su una concezione del gioco di ruolo che può sembrarci piuttosto peculiare. Ma si tratta di una finestra molto facile da aprire. Non parliamo di un celacanto che per essere apprezzato richiede la formazione di un gusto particolare, bensì di un videogioco presente e vivo, e non soltanto grazie all’ottima Pixel Remaster. Anzi, nonostante quest’ultima sia ovviamente la versione più accessibile e rifinita, me la sento comunque di consigliare prima di tutto la versione NES, con tutti i suoi bug e la sua maggiore lentezza e macchinosità. Non che ci sia nulla di male a volerci giocare nella veste più moderna, ma credo che la forma sia contenuto, e che sia bene abituarsi anche ad estetiche e meccaniche meno alla moda: alla fine non ci vuole nulla, e ci si consente l’accesso ad un altro tipo di fascino.

Commenti