The Witcher 3 è davvero un gioco di ruolo?

Prima di tentare di rispondere alla domanda che ho posta nel titolo, ritengo sia necessaria una breve premessa, uno schermirsi volto ad evitare fraintendimenti. Sminuire The Witcher 3 non è tra le mie intenzioni, né lo è dissacrarlo in alcuna misura. La questione che sto per porre non riguarda la qualità del videogioco, ed ha invece a che fare con cosa quel videogioco sia. Anzi, con cosa siano moltissimi videogiochi della stessa genia. Neanche mi sta tanto a cuore la risposta a questa domanda in sé: non intendo salire su nessuna pedana ad elargire una nuova sovversiva verità, per quanto giusta a me sembri, e mi basta invece piantare un dubbio, stimolare una riflessione su qualcosa che diamo per scontato. Non è l’etichetta il mio problema, ma la mancanza di consapevolezza sul significato, il chiamare i coltelli forchette così a lungo che ormai esistono solo forchette, a prescindere dal fatto che inforchino o che taglino. Né credo di stare inseguendo un cavillo semantico, e prego chiunque stia sospirando e scuotendo la testa, come a dire “la Terra è sempre stata tonda e questo qui vuol farla a parole quadrata”, di lasciarmi strattonare un po’ il tappeto che ha sotto i piedi: se anche dovesse riuscirmi di sfilarlo, non si tratta che di un’analogia, e prometto che nessuno si farà male.

Verba sequentur, per favore.

Occorre muovere da una domanda fondamentale: che cos’è un gioco di ruolo? Nella tradizione videoludica questa locuzione evoca immediatamente immagini di mondi aperti, slot per l’equipaggiamento, abilità, statistiche, quest giver. Di solito vedere un personaggio che corre in giro, accetta missioni e sale di livello, basta per farci identificare quel videogioco come GDR. Non ricorriamo, quindi, ad una definizione specifica e chiara, ampia o ristretta che sia, bensì a criteri vaghi e variabili, quasi istintivi, che punto o poco hanno a che fare con l’atto del giocare di ruolo.

Una rara foto d'epoca di Gary Gygax e Dave Arneson

Sulla definizione di gioco di ruolo, e sulla difficoltà di individuarne una universale, trovo si sia già espresso con chiarezza più che sufficiente Alex Grisafi dalle pagine di Player.it. L’articolo cui rimando si riferisce al gioco di ruolo tradizionale, al gruppo di amici radunati intorno ad un tavolo che tirano dadi e si raccontano storie, ma io ritengo che sia un discorso trasferibile, previ alcuni accorgimenti, al videogioco: c’è un cambio di linguaggio, c’è una storia mediatica divergente, ma trovo assurdo ed incongruente che la mera presenza di un supporto video faccia assumere al concetto di gioco di ruolo un significato radicalmente diverso, al punto da non ricondurre più a quello originale, soprattutto vista l’esistenza di numerosissimi videogiochi, vecchi e nuovi, che invece vi riconducono eccome, e visti anche i punti di contatto e di derivazione storica. Se oggi diciamo che i videogiochi di ruolo sono una cosa diversa, e che le stesse definizioni non possono applicarsi, lo facciamo solo e soltanto in virtù di uno svuotamento semantico in ambito videoludico, il tipo di fraintendimento che avviene quando si passano decenni a nominare qualcosa il cui significato non si conosce davvero, ma si intuisce dal contesto. Ed ecco che ritorniamo alle statistiche, ai livelli, ai quest giver: caratteristiche apparenti, ma non sostanziali, di molti videogiochi di ruolo. E se è vero che la lingua va dove vuole, e impuntarsi contro l’uso comune delle parole rischia di servire a poco, è anche vero che non tutti i cambiamenti sono rivoluzionari, che a volte conviene calarsi la toga del bacchettone polveroso e cervellotico se può servire a resistere, per esempio, a uno spostamento a destra del linguaggio, o anche solo a scongiurare una situazione babelica.

Il problema della definizione.

Quante volte abbiamo letto o sentito stimati professionisti della critica videoludica riferirsi a “meccaniche GDR”, in riferimento a qualsiasi sistema di progressione parametrica? Quante volte abbiamo definito “elemento ruolistico” dei banalissimi dialoghi a scelta multipla? Cercare la definizione di videogioco di ruolo in una meccanica precisa porta sempre, ed è pacifico a chiunque provi ad applicarla davvero, ad alcuni problemi: è troppo ristretta, cioè esclude molti videogiochi che dovrebbero invece a buon diritto dirsi di ruolo, o troppo ampia, includendo videogiochi privi di alcun contatto con quella tradizione.

Se diciamo che The Witcher 3 è un gioco di ruolo perché si accumulano punti esperienza e si sale di livello, stiamo implicando che RuneQuest e Call of Cthulhu non siano giochi di ruolo, e lo sia invece FIFA20. Se diciamo che The Witcher 3 è un gioco di ruolo perché il personaggio progredisce tramite l’acquisizione e l’affinamento di abilità o pezzi di equipaggiamento, stiamo dando del gioco di ruolo anche a The Sims o a Tomb Raider. Se diciamo che il gioco di ruolo è un fatto narrativo, e quindi The Witcher 3 vi rientra per via dei dialoghi a scelta multipla, come mai non chiamiamo GDR anche Beyond: Due Anime e Nekopara? Se chiamiamo The Witcher 3 “gioco di ruolo” in virtù del fatto che il giocatore veste i panni di Geralt di Rivia, perché non è un GDR qualsiasi gioco che abbia uno o più protagonisti? Si agisce, nei dialoghi e nei combattimenti, come farebbe Geralt di Rivia, l’unico Geralt di Rivia esistente, nello stesso modo in cui si agisce come farebbe Ezio Auditore, che è l’unico Ezio Auditore possibile: non si può fare altrimenti.

Il gameplay di The Witcher 3 è più un'espressione tecnica che creativa.

Nessuno di questi criteri, e nessuna loro combinazione, può essere soddisfacente. È necessario rifiutarli e prendere atto di una banalità: il videogioco di ruolo, in qualsiasi sua declinazione storica (action, tattico, giapponese, isometrico, eccetera), non è un genere videoludico definibile tramite l’uso di determinati strumenti interattivi, ma solo dal fine che quegli strumenti servono, che deve essere un fine ruolistico. Se vogliamo individuare un videogioco di corse, tutto ciò che dobbiamo fare è controllare che sia un videogioco in cui si fanno gare di velocità con dei veicoli. Se vogliamo individuare un videogioco come platform, basta controllare che il movimento vi si esprima tramite salti su delle piattaforme. Il gioco di ruolo è più problematico, ma nondimeno credo valga lo stesso ragionamento. Un gioco di ruolo è tale non se ha le statistiche, non se ha le abilità, non se ha quest giver e dialoghi a scelta multipla. Per la stessa ragione per cui un gioco di corse è un videogioco in cui si fanno corse, un videogioco è un gioco di ruolo se è un videogioco in cui si gioca di ruolo. Per dirlo abbiamo anche rimediato un nuovo scioglilingua.

Cosa vuol dire giocare di ruolo in un videogioco?

Richiamo la definizione riportata dall’articolo di Grisafi.

“Un gioco di ruolo è un gioco nel quale il giocatore ricopre uno o più ruoli all’interno di un universo narrativo ed è autorizzato a influenzare quell’universo narrativo in modo emergente.”

È una definizione molto asciutta, che può prestarsi ad alcune precisazioni, per esempio su cosa significhi ricoprire un ruolo, ma è anche indubbiamente calzante se riferita al gioco di ruolo tradizionale. Come ho già detto, è mia convinzione che debba prestarsi anche all’uso in campo videoludico, ma ha bisogno di essere contestualizzata: del resto chi racconta una storia corale attorno a un tavolo sta parlando una lingua molto diversa da quella di chi consegna input elettronici a un calcolatore. È proprio nella traduzione dall'uno all'altro linguaggio che si genera, a mio avviso, il fraintendimento.

Nella grandissima maggioranza dei casi un videogioco non può autorizzare il giocatore a influenzare il proprio universo narrativo in modo emergente, non se con “universo narrativo” intendiamo l’insieme delle informazioni letterarie che il videogioco ci consegna. Quella che comunemente chiamiamo storia, per capirci, non può essere il risultato della creatività del giocatore: ha un’inizio e ha una fine, o più di una, e per quanto lo sviluppatore si ingegni per architettare bivi e ramificazioni, la sua figura non è quella di un master particolarmente stringente: è proprio un’altra cosa. Chi gioca di ruolo non sceglie tra possibilità predefinite, ma usa la propria creatività per inventare soluzioni narrativamente coerenti nel rispetto delle regole, se ce ne sono. È chiaro a chiunque che Final Fantasy, nel 1987, non poteva certo autorizzare il giocatore a inventare la storia, e non poteva farlo neanche The Witcher 3 nel 2015.

Nei videogiochi tuttavia non esiste una sola storia. Non c’è solo il racconto dello sviluppatore, quello di cui siamo più testimoni che altro: la cutscene in cui Ciri fugge dalla Caccia Selvaggia, per quanto bella e appassionante possa essere, qui non mi interessa. C’è un’altra storia, molto più essenziale al mezzo videoludico: il racconto del giocatore, che nel rispetto delle regole, o a volte contro di esse, usa la propria creatività per inventare soluzioni ai problemi che il gioco gli presenta. È la narrativa come espressione diretta della volontà del giocatore, al più consentita o agevolata dagli sviluppatori, ma non da loro orchestrata: Geralt di Rivia andò a inerpicarsi sul crinale ombroso, a stupefarsi del più rovente dei tramonti, perché io ve lo condussi con un input di movimento. L’azione, in un videogioco, crea un fatto, un evento, che è storia. Lo è scegliere di planare proprio da quell’altura in Breath of the Wild, lo è sopravvivere a stento a un attacco di mercenari in Skyrim, volendo lo è anche essere costretto a un atterraggio di fortuna in Flight Simulator.

Sarò sempre molto più affezionato ad Alicia, in quanto espressione della mia immaginazione, che a Geralt, personaggio letterario di cui sono stato solo spettatore.

Va da sé che una dote di ogni buon videogioco di ruolo è allentare la presa, lasciare al giocatore lo spazio di agire e di fantasticare. È un requisito, ma non è un requisito sufficiente: cogliere un contenuto narrativo in Flight Simulator può forse aprire una consapevolezza nuova sul valore dell’interattività nel videogioco, ma non fa certo di Flight Simulator un gioco di ruolo. Se uno script narrativo, l’if-then di una quest, non può consentire narrativa emergente, può quantomeno cercare di accogliere la fantasia del giocatore tramite una ramificazione abbastanza ampia o abbastanza vaga. Degli esempi possono essere Baldur’s Gate, Morrowind, The Outer Worlds, persino Skyrim e Fallout 4, non certo The Witcher 3 o Assassin’s Creed Odyssey. Ma dove davvero il videogioco può accettare gli input narrativi emergenti del giocatore è nelle meccaniche, non nella “storia” ma nel gameplay, nel consentirgli di agire in un modo che rifletta la fantasia del suo personaggio e la creatività del suo problem solving. Credo sia la ragione più importante della storica affinità e ambiguità tra immersive sim e gioco di ruolo: in Breath of the Wild posso usare creativamente i sistemi simulativi del gioco, vale a dire le sue regole, per superare un problema, in modo non dissimile da come farei in Prey o in una sessione di D&D. Questa traduzione della fantasia in atto di gioco può servirsi di una moltitudine di strumenti diversi, da cui l’impossibilità di definire il videogioco di ruolo su base strettamente meccanica: il confronto e la collaborazione con personaggi di altri giocatori, una personalizzazione di parametri ed abilità che consenta al giocatore di interagire secondo la fantasia del suo personaggio (un mago lancia magie, un hacker viola sistemi informatici), dando valenza narrativa all’espressione creativa dei sistemi di progressione, un impianto simulativo in grado di accettare la creatività del giocatore, una narrativa a scelte multiple che si sforzi il più possibile di accogliere diverse interpretazioni dei personaggi e dei loro modi di rapportarsi con il mondo, un universo narrativo abbastanza implicito e discreto da consentire al giocatore di inserire la propria storia tra le sue informazioni e suggestioni.

A questo punto, volendo dare una definizione tutt’altro che bacchettona, irrealistica o capricciosa, ma anzi ampia e flessibile, in grado di cogliere tutte le ambiguità, le misure e i modi in cui il gioco di ruolo si manifesta videoludicamente, direi che possiamo riprendere, così com’è, quella di Francesco Sedda: “Un gioco di ruolo è un gioco nel quale il giocatore ricopre uno o più ruoli all’interno di un universo narrativo ed è autorizzato a influenzare quell’universo narrativo in modo emergente.”

Ma quindi, The Witcher 3?

The Witcher 3 è un videogioco che emerge, un po’ alla lontana, da una tradizione indubbiamente ruolistica: ha alle spalle la pubblicazione di Baldur’s Gate, ha Gothic tra le proprie ispirazioni e CD Projekt RED si è sempre inserita, per intenti e comunicazione, nella cultura ruolistica. Tuttavia non direi che The Witcher 3 sia un videogioco di ruolo, se non in modo marginalissimo. È un’avventura fantasy grandiosa, da cui a buon diritto ci lasciamo rapire, ed include meccaniche tradizionalmente associate, nel mondo videoludico, al gioco di ruolo, ma non mi sembra che in alcun momento The Witcher 3 abiliti esplicitamente il gioco di ruolo. Le abilità obbediscono alla stessa logica di quelle di Tomb Raider o Shadow of Mordor, non servono a tradurre in espressione meccanica la creatività del giocatore, né lo fanno i dialoghi a scelta multipla, formalmente accostabili più a un film interattivo che a un gioco di ruolo. Lo stesso open world è più vicino a una filosofia sandbox, basata sul consumo di attività, che ad approcci immersivi, come quello di Bethesda o di Piranha Bytes. In The Witcher 3 quegli strumenti che normalmente riconduciamo al videogioco di ruolo non servono fini ruolistici.


Lo stesso Fallout 4 funziona tanto meglio come GDR, quanto più si fa da parte.

Perché è importante? Come dicevo in apertura, non certo perché intenda sminuire The Witcher 3, ma l’esatto contrario: riprendendo l’esempio iniziale, se trattassimo i coltelli da forchette, scopriremmo che sono pessime forchette. Forse con un po’ di fantasia potremmo anche riuscire a infilzarci un rigatone, ma dubito che qualcuno lo considererebbe un uso ottimale. The Witcher 3 è un videogioco straordinario, per quanto contraddittorio, ma lo è solo nella sua dimensione propria di avventura d’azione che propone l’esperienza narrativa come letteratura da consumare, anziché come un atto di creatività del giocatore. Se mi si chiedesse invece di vederlo come un gioco di ruolo, potrei dire soltanto che è un pessimo gioco di ruolo. 

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