Prima di tentare di rispondere alla domanda che ho posta nel titolo, ritengo sia necessaria una breve premessa, uno schermirsi volto ad evitare fraintendimenti. Sminuire The Witcher 3 non è tra le mie intenzioni, né lo è dissacrarlo in alcuna misura. La questione che sto per porre non riguarda la qualità del videogioco, ed ha invece a che fare con cosa quel videogioco sia. Anzi, con cosa siano moltissimi videogiochi della stessa genia. Neanche mi sta tanto a cuore la risposta a questa domanda in sé: non intendo salire su nessuna pedana ad elargire una nuova sovversiva verità, per quanto giusta a me sembri, e mi basta invece piantare un dubbio, stimolare una riflessione su qualcosa che diamo per scontato. Non è l’etichetta il mio problema, ma la mancanza di consapevolezza sul significato, il chiamare i coltelli forchette così a lungo che ormai esistono solo forchette, a prescindere dal fatto che inforchino o che taglino. Né credo di stare inseguendo un cavillo semantico, e prego chiunque stia sospirando e scuotendo la testa, come a dire “la Terra è sempre stata tonda e questo qui vuol farla a parole quadrata”, di lasciarmi strattonare un po’ il tappeto che ha sotto i piedi: se anche dovesse riuscirmi di sfilarlo, non si tratta che di un’analogia, e prometto che nessuno si farà male.
Verba sequentur, per favore.
Occorre muovere da una domanda
fondamentale: che cos’è un gioco di ruolo? Nella tradizione videoludica questa
locuzione evoca immediatamente immagini di mondi aperti, slot per l’equipaggiamento,
abilità, statistiche, quest giver. Di solito vedere un personaggio che corre in
giro, accetta missioni e sale di livello, basta per farci identificare quel
videogioco come GDR. Non ricorriamo, quindi, ad una definizione specifica e
chiara, ampia o ristretta che sia, bensì a criteri vaghi e variabili, quasi istintivi,
che punto o poco hanno a che fare con l’atto del giocare di ruolo.
![]() |
Una rara foto d'epoca di Gary Gygax e Dave Arneson |
Il problema della definizione.
Quante volte abbiamo letto o sentito stimati professionisti della critica videoludica riferirsi a “meccaniche GDR”, in riferimento a qualsiasi sistema di progressione parametrica? Quante volte abbiamo definito “elemento ruolistico” dei banalissimi dialoghi a scelta multipla? Cercare la definizione di videogioco di ruolo in una meccanica precisa porta sempre, ed è pacifico a chiunque provi ad applicarla davvero, ad alcuni problemi: è troppo ristretta, cioè esclude molti videogiochi che dovrebbero invece a buon diritto dirsi di ruolo, o troppo ampia, includendo videogiochi privi di alcun contatto con quella tradizione.
Se diciamo che The Witcher 3 è un gioco di
ruolo perché si accumulano punti esperienza e si sale di livello, stiamo
implicando che RuneQuest e Call of Cthulhu non siano giochi di ruolo, e lo sia
invece FIFA20. Se diciamo che The Witcher 3 è un gioco di ruolo perché il
personaggio progredisce tramite l’acquisizione e l’affinamento di abilità o pezzi
di equipaggiamento, stiamo dando del gioco di ruolo anche a The Sims o a Tomb
Raider. Se diciamo che il gioco di ruolo è un fatto narrativo, e quindi The
Witcher 3 vi rientra per via dei dialoghi a scelta multipla, come mai non
chiamiamo GDR anche Beyond: Due Anime e Nekopara? Se chiamiamo The Witcher 3 “gioco
di ruolo” in virtù del fatto che il giocatore veste i panni di Geralt di Rivia,
perché non è un GDR qualsiasi gioco che abbia uno o più protagonisti? Si
agisce, nei dialoghi e nei combattimenti, come farebbe Geralt di Rivia, l’unico
Geralt di Rivia esistente, nello stesso modo in cui si agisce come farebbe Ezio
Auditore, che è l’unico Ezio Auditore possibile: non si può fare altrimenti.
![]() |
| Il gameplay di The Witcher 3 è più un'espressione tecnica che creativa. |
Richiamo la definizione riportata dall’articolo
di Grisafi.
“Un gioco di ruolo è un gioco nel quale il giocatore ricopre uno o più ruoli all’interno di un universo narrativo ed è autorizzato a influenzare quell’universo narrativo in modo emergente.”
È una definizione molto asciutta, che può
prestarsi ad alcune precisazioni, per esempio su cosa significhi ricoprire un
ruolo, ma è anche indubbiamente calzante se riferita al gioco di ruolo
tradizionale. Come ho già detto, è mia convinzione che debba prestarsi anche all’uso in campo videoludico, ma ha bisogno di essere contestualizzata: del resto chi
racconta una storia corale attorno a un tavolo sta parlando una lingua molto
diversa da quella di chi consegna input elettronici a un calcolatore. È proprio nella traduzione dall'uno all'altro linguaggio che si genera, a mio avviso, il fraintendimento.
Nella grandissima maggioranza dei casi un
videogioco non può autorizzare il giocatore a influenzare il proprio universo
narrativo in modo emergente, non se con “universo narrativo” intendiamo l’insieme
delle informazioni letterarie che il videogioco ci consegna. Quella che
comunemente chiamiamo storia, per capirci, non può essere il risultato della
creatività del giocatore: ha un’inizio e ha una fine, o più di una, e per
quanto lo sviluppatore si ingegni per architettare bivi e ramificazioni, la sua
figura non è quella di un master particolarmente stringente: è proprio un’altra
cosa. Chi gioca di ruolo non sceglie tra possibilità predefinite, ma usa la
propria creatività per inventare soluzioni narrativamente coerenti nel rispetto
delle regole, se ce ne sono. È chiaro a chiunque che Final Fantasy, nel 1987,
non poteva certo autorizzare il giocatore a inventare la storia, e non poteva
farlo neanche The Witcher 3 nel 2015.
Nei videogiochi tuttavia non esiste una sola storia. Non c’è solo il racconto dello sviluppatore, quello di cui siamo più testimoni che altro: la cutscene in cui Ciri fugge dalla Caccia Selvaggia, per quanto bella e appassionante possa essere, qui non mi interessa. C’è un’altra storia, molto più essenziale al mezzo videoludico: il racconto del giocatore, che nel rispetto delle regole, o a volte contro di esse, usa la propria creatività per inventare soluzioni ai problemi che il gioco gli presenta. È la narrativa come espressione diretta della volontà del giocatore, al più consentita o agevolata dagli sviluppatori, ma non da loro orchestrata: Geralt di Rivia andò a inerpicarsi sul crinale ombroso, a stupefarsi del più rovente dei tramonti, perché io ve lo condussi con un input di movimento. L’azione, in un videogioco, crea un fatto, un evento, che è storia. Lo è scegliere di planare proprio da quell’altura in Breath of the Wild, lo è sopravvivere a stento a un attacco di mercenari in Skyrim, volendo lo è anche essere costretto a un atterraggio di fortuna in Flight Simulator.
![]() |
| Sarò sempre molto più affezionato ad Alicia, in quanto espressione della mia immaginazione, che a Geralt, personaggio letterario di cui sono stato solo spettatore. |
A questo punto, volendo dare una definizione tutt’altro che bacchettona, irrealistica o capricciosa, ma anzi ampia e flessibile, in grado di cogliere tutte le ambiguità, le misure e i modi in cui il gioco di ruolo si manifesta videoludicamente, direi che possiamo riprendere, così com’è, quella di Francesco Sedda: “Un gioco di ruolo è un gioco nel quale il giocatore ricopre uno o più ruoli all’interno di un universo narrativo ed è autorizzato a influenzare quell’universo narrativo in modo emergente.”
Ma quindi, The Witcher 3?
The Witcher 3 è un videogioco che emerge, un po’ alla lontana, da una tradizione indubbiamente ruolistica: ha alle spalle la pubblicazione di Baldur’s Gate, ha Gothic tra le proprie ispirazioni e CD Projekt RED si è sempre inserita, per intenti e comunicazione, nella cultura ruolistica. Tuttavia non direi che The Witcher 3 sia un videogioco di ruolo, se non in modo marginalissimo. È un’avventura fantasy grandiosa, da cui a buon diritto ci lasciamo rapire, ed include meccaniche tradizionalmente associate, nel mondo videoludico, al gioco di ruolo, ma non mi sembra che in alcun momento The Witcher 3 abiliti esplicitamente il gioco di ruolo. Le abilità obbediscono alla stessa logica di quelle di Tomb Raider o Shadow of Mordor, non servono a tradurre in espressione meccanica la creatività del giocatore, né lo fanno i dialoghi a scelta multipla, formalmente accostabili più a un film interattivo che a un gioco di ruolo. Lo stesso open world è più vicino a una filosofia sandbox, basata sul consumo di attività, che ad approcci immersivi, come quello di Bethesda o di Piranha Bytes. In The Witcher 3 quegli strumenti che normalmente riconduciamo al videogioco di ruolo non servono fini ruolistici.
![]() |
| Lo stesso Fallout 4 funziona tanto meglio come GDR, quanto più si fa da parte. |
Perché è importante? Come dicevo in apertura, non certo perché intenda sminuire The Witcher 3, ma l’esatto contrario: riprendendo l’esempio iniziale, se trattassimo i coltelli da forchette, scopriremmo che sono pessime forchette. Forse con un po’ di fantasia potremmo anche riuscire a infilzarci un rigatone, ma dubito che qualcuno lo considererebbe un uso ottimale. The Witcher 3 è un videogioco straordinario, per quanto contraddittorio, ma lo è solo nella sua dimensione propria di avventura d’azione che propone l’esperienza narrativa come letteratura da consumare, anziché come un atto di creatività del giocatore. Se mi si chiedesse invece di vederlo come un gioco di ruolo, potrei dire soltanto che è un pessimo gioco di ruolo.




Commenti
Posta un commento