Cyberpunk 2077 è la prova che stiamo sbagliando strada

Mi rendo conto che quanto segue potrebbe dar l’idea di essere un’infondatezza buttata lì per pura voglia di ragionare. Mi rendo conto che è un tema rischioso da sollevare, all’ombra della massa polarizzante di Cyberpunk 2077, che proprio in questi giorni sembra voler costringere a sé ogni discorso videoludico. Mi rendo anche conto di non essere affatto la persona più preparata possibile, e sto scrivendo con la consapevolezza che questo intervento potrebbe rivelarsi un passo troppo lungo per le mie gambe di semplice appassionato, che pigramente riflette e si informa di videogiochi, ma che mai li ha tradotti in un oggetto di studio serio e metodico.

Si dice che quanto più si è alti, tanto più rumore faccia la caduta, e di rumore Cyberpunk ne sta facendo moltissimo. Problemi di performance, bug e crash sono solo il primo strato di uno dei disastri mediatici più plateali che io ricordi nella storia del nostro medium. C’è anche, se non soprattutto, l’aperta, svergognata disonestà di un publisher disposto a mentire apertamente al pubblico pur di piazzare il maggior numero di copie possibile, c’è una stampa che volente o nolente, per ingenuità o colpevole e pavida acquiescenza, si è prestata a fare da megafono a quella che ha tutta l’aria di essere una truffa, tale da spingere Sony stessa ad avviare una campagna di rimborsi. Non solo Cyberpunk 2077 è ben lungi dall’essere il lavoro complesso, profondo e rifinito che ci si aspettava, non solo è afflitto da bug gravi e frequenti, non solo ha prestazioni insoddisfacenti: su tutte le macchine della generazione appena trascorsa, la generazione per cui era stato annunciato, pensato e pubblicizzato, Cyberpunk 2077 è ingiocabile. E se normalmente non amo questo genere di chiasso, le tempeste di memi che tendono a turbinare attorno a prodotti simili, un caso così eclatante può essere il terreno di coltura di molte riflessioni utili su aspetti critici del mercato e della cultura videoludica: la sostenibilità della crescita eterna delle produzioni, la normalizzazione della pratica del crunch, ma anche il ruolo degli investitori nel determinare l’esito di anni di lavoro, nonché le responsabilità di una stampa che, anziché fare da filtro critico tra produttori e utenti, finisce spesso con l’essere poco più che una cassa di risonanza per le narrative e le campagne comunicative delle grandi aziende.

Sempre di più...
Sempre di più.

Tra tutti questi temi, che pure meriterebbero più attenzione e che finché il ferro è caldo andrebbero battuti con vigore, ve n’è uno che non ho visto quasi per nulla sollevato: quello dei “bug”. O meglio, di bug di ogni tipo, senza attenzione alle tipologie e alle loro cause reali, si sente parlare costantemente, tra vignette, battute e video compilation degli errori più divertenti registrati dai giocatori. Si parla del disastro, se ne ride, lo si denuncia, ma non ho visto molti metterne in discussione le premesse. Mi sembra che il concetto di “bug” sia sfuggito da tempo al suo mero significato di errore, di anomalia nell’esecuzione di un programma, e abbia finito con il mutarsi in alfiere di una narrativa specifica: quella del valore produttivo. Il videogioco, secondo la concezione diffusane dai produttori, dai giornalisti e da noi stessi, in perfetta aderenza al tipo di mercato in cui viviamo, deve essere sempre di più: sempre più grande, sempre più ricco, sempre più costoso, sempre più profondo e complesso. Il prossimo grande videogioco, per stupire, deve umiliare il grande videogioco precedente, un’urgenza tanto più viva e incalzante al lancio di una nuova generazione, quando lo stupore per le meraviglie tecnologiche diventa un metro universale di qualità, il ritornello principale di chi voglia venderci qualcosa.

È sostenibile? Una mappa di trenta chilometri quadrati può trasformarsi in una da novanta, una da duecento, da trecento, da mille? Può proporre ambienti sempre più realistici, sempre più complessi, più ricchi, man mano che se ne espande la superficie? L’intelligenza artificiale può farsi sempre più complessa, e allo stesso tempo farsi sempre più numerosi gli oggetti che controlla? Che aspetto dovrà avere il prossimo The Elder Scrolls per smontarci la mandibola? Quante volte dovrà moltiplicare Skyrim? Noi vogliamo sempre più poligoni, animazioni sempre più dettagliate, texture sempre più grandi, tecnologie di simulazione fisica sempre più realistiche, ma se la nuova tecnologia semplifica e velocizza alcuni processi, rende altri immensamente più laboriosi: dietro una bottiglia tridimensionale c’è sempre qualcuno che deve modellarla, che il suo poligono abbia cinquanta facce, cinquecento o cinquemila.

Sia chiaro, non intendo demonizzare a priori la crescita, il progresso e l’avanzamento tecnologico, ma neanche intendo confondere la crescita del sapere e della tecnologia con l’accumulo dei capitali: non sono la stessa cosa, non si implicano, non si esigono. Dietro quella inarrestabile sovrabbondanza ci sono risorse, consumi, una forza lavoro. Non dobbiamo solo spingere verso un avanti che ci immaginiamo fatto di eccessi sempre ulteriori: dobbiamo chiederci quanto costi e fino a che punto ne valga la pena.

E di più.

Credo di non sorprendere nessuno quando dico che un risultato così “buggato” non è solo un incidente di percorso, non è il prodotto della pigrizia o dell’inettitudine degli sviluppatori che ci hanno consegnato The Witcher 3. È l’esito di un rapporto iniquo tra le esigenze del valore produttivo, gli interessi degli investitori e il valore del lavoro degli sviluppatori, il loro tempo, la loro creatività. E la soluzione, la brillante idea per risolvere quelle difficoltà, quegli errori, è spendere di più, far lavorare di più, prolungare i tempi di sviluppo e i costi della pubblicità. E alla fine della corsa c’è il nuovo grande progetto, il secondo capitolo che deve surclassare il primo. Per quanto straordinari siano i bug di Cyberpunk, non sono che il sintomo, l’ultimo in una lunga serie, di un modello di sviluppo sempre più insostenibile, sempre più sovrumano, pensato per nutrire capitali miliardari alle spese di tutto il resto: utenti, sviluppatori e cultura del videogioco.

Ne vale la pena? Qualcuno dirà che sì, la vale, perché è il prezzo del progresso, perché viviamo ancora nell’illusione che il progresso sia una funzione dello sfruttamento. Eppure si può dire che sia il contrario: questo modello di sviluppo improntato alla crescita costante degli investimenti, oltre ad esigere capitali sempre maggiori e favorire quindi uno spostamento del mercato nella direzione di un oligopolio, produce stagnazione, immobilità, se non arretramenti sostanziali. E se il mito dei bei videogiochi di una volta è, appunto, soltanto un mito, è anche vero che il peso produttivo di certi elementi inevitabilmente strozza il potenziale degli altri: i cosiddetti "AAA" infatti non sono privi di sacrifici, e non solo in termini di salute e diritti degli sviluppatori, ma anche in termini di design e di investimenti. La bontà dell'intelligenza artificiale è più difficile da vendere rispetto ad un colpo d'occhio senza precedenti, perché investirci? Perché disporre sistemi ed interazioni volti a valorizzare ed evolvere il mezzo videoludico, quando posso riprodurre quelli passati moltiplicando i contenuti? Perché immaginare il gioco come un atto creativo, se è più fruttuoso immaginarlo come un atto produttivo? Perché dovrei investire in un comportamento credibile della polizia, quando è il fascino di Keanu Reeves a conquistare le prime pagine? Perché dovrei dare la priorità a confezionare versioni "old gen" funzionanti, quando so benissimo che è la pubblicità a farmi riempire gli scaffali? Ed eccoci qui, nel futuro, sull'onda del peggiore consumismo spacciato per "progresso", a sperare di trovare nel prossimo grande GDR la stessa profondità di Morrowind o di Gothic 2. Anzi, a sperare che funzioni.

Raphael Colantonio, fondatore di WolfEye e di Arkane, nonché direttore di perle storiche come Arx Fatalis, Dishonored e Prey, ebbe a dire a riguardo: “È da due o tre generazioni ormai, che gioco allo stesso videogioco. L’unica differenza è che è più bello, a più alta risoluzione, con più shader, ma il gioco è lo stesso. Ricordo questo momento ridicolo mentre stavamo lavorando a Dishonored, e avevo chiesto al mio lead programmer quanti personaggi potessi avere in combattimento. E lui rispose qualcosa tra cinque e sei. Pensai bene, okay. Ha senso. L’IA è quello che è, e avevamo personaggi con diecimila poligoni o giù di lì. Andando avanti di quattro o cinque anni, stiamo facendo Prey. Un nuovo motore, una nuova tecnologia, un nuovo hardware. Torno dal mio lead programmer, con la stessa domanda. Quanti personaggi possiamo avere? Forse cinque o sei. L’unica differenza tra una generazione e la successiva era che il budget era raddoppiato e, per via di quel raddoppiamento, deve andare a più persone. Anziché volerci tre mesi per creare un personaggio, ora ce ne vogliono sei, c’è bisogno di più ottimizzazione, più di tutto. [...] Ma più ti addentri in questo tipo di sviluppo, meno flessibilità hai nel fare cambiamenti. E in un mondo in cui fare videogiochi è un fatto di innovazione, R&D e tentativi, quella pesantezza di grafica e produzione ostacola la flessibilità, il ritornare sulle idee, provare qualcos’altro.”

E di meno.

Suonerò drammatico, ma leggere storie di videogiochi finiti male, di sviluppi tormentati, è materia da racconti dell’orrore: si è visto più volte come anni e anni di lavoro possano essere cestinati per il capriccio di un publisher, come mire produttive troppo alte rendano impossibile tornare sui propri passi quando ci si rende conto che qualcosa di fondamentale non funziona, come anche i più talentuosi ed esperti degli studi di sviluppo abbiano finito con il chiudere i battenti.

Tutto questo per dire cosa? Che dovremmo smettere le grandi produzioni e rifugiarci in un mondo fatto solo di indie? Che l’avanzamento grafico è un nemico dei videogiochi? Che CD Projekt va compatita, come azienda, per la catastrofe di Cyberpunk 2077? Nessuna di queste cose. Occorre però interrogarsi seriamente su dove vogliamo che i videogiochi vadano, quanta importanza sia il caso di attribuire a fattori produttivi in grado di strozzare imprese da centinaia di milioni di dollari, e se non esistano modelli di sviluppo più sani, più a misura di essere umano, e meglio in grado di evolvere davvero le possibilità espressive e tecniche del videogioco, senza la zavorra pericolosa ed inutile della sovrapproduzione e della cultura dell’hype. Senza il terrore che il "valore produttivo", cioè il disvalore creativo, non venga raggiunto.

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