Alcune idee, alcuni modi di pensare, una volta che li
abbiamo persi o ce ne siamo liberati, ci diventano incomprensibili e alieni,
come se non fossero mai stati nostri, come se non vi avessimo mai partecipato.
Può darsi che un giorno smettiamo di respirare nel solco del sistema
patriarcale, che ci accorgiamo di essere capaci di leggere la storia come una
continua lotta tra classi, che sveliamo il carattere ideologico della dottrina
del libero mercato, che scopriamo la proverbiale acqua calda e quanto un istante
prima era impensabile, all'improvviso si faccia ovvio, così come ciò che era
ovvio diventi ora un mistero indecifrabile. E quanto sa essere frustrante
guardarsi intorno a quel punto e constatare che quella porta che a noi ha fatto
la cortesia di aprirsi, più per fortuità che per merito, resta per moltissimi
ancora disperatamente chiusa.
Corro volentieri il rischio di suonare
paternalistico, ma una di quelle idee, uno di quei modi di pensare di cui credo
occorra liberarsi è l'ossessione del giudizio, la diffusa urgenza di innalzarsi
ad arbitri del bello, riducendo ogni espressione artistica ad un atleta in
disperata contesa per la nostra approvazione, e trasformando l'arte in una gara
di adeguatezza, la cui destinazione sono standard arbitrari e personali cui
esigiamo indosso una veste di universalità. E con quanta trepidazione
attendiamo il momento della massima soddisfazione: quello in cui possiamo
finalmente alzare la paletta, l'esercizio di un potere di nulla utilità, ma di
cui a tal punto siamo inebriati, che a volte non attendiamo neanche il taglio
del traguardo per affrettarci a esercitarlo. Con buona pace del significato,
degli sforzi comunicativi di chi si è messo in gioco, di chi ha investito idee,
denaro ed emozioni nel tentativo di raggiungerci, scoprendo a noi qualcosa di
interiore e di importante. Forse è inevitabile che la bellezza sia la misura
della capacità di un'opera di stimolare una risposta emotiva e umorale nei
nostri cervelli, ma vorrei che almeno il nostro rapporto con l'arte e la nostra
disponibilità ad aprirci ad essa non fosse una mera funzione dell'appagamento più
istantaneo e superficiale.
Sarà
che sono di bocca buona. Me l'hanno detto in passato, anche se non pensavano
potesse essere un complimento. Del resto troverei strano ambire ad essere di
bocca cattiva, e quanto più passa il tempo, quanto più ci penso, quanto più
sono esposto a giudizi e valutazioni, in ambienti critici che sembrano
traumatizzati da un'infanzia all'ombra delle cattedre, che sembrano convinti
che il mondo sia una gigantesca graduatoria, che il valore delle cose sia uno
scarabocchio in rosso a fondo pagina, tanto più mi persuado che la critica,
dalla colonna sul quotidiano nazionale al messaggio sul forum, debba scoprire
come mira primaria la capacità di trovare il significato, l'interesse e dunque
la bellezza. Non tutti devono essere capaci di entrare in risonanza con tutto,
ma come minimo dovremmo smetterla di confondere il "valore oggettivo"
dell'arte con la ristrettezza delle nostre vedute e i limiti della nostra
empatia.
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| La Motoko di Ilya Kuvshinov è bellissima. |
Perché questo lungo preambolo? Perché da alcuni giorni è disponibile su
Netflix Ghost in the
Shell: SAC_2045, il nuovo ONA di Production I.G, e nella mia bolla social
ho già visto svettare diverse palette rosse. Voglio che sia chiaro: non intendo
proporvi una recensione, né dirvi cosa dovrebbe piacervi o dispiacervi. Non è
mia intenzione imbastire un'accusa dei detrattori, e ho superato da tempo
quella fase infantile in cui il gusto altrui mi indispettiva, quando non mi
ossessionava. Del resto se la toga del giudice è una ridicola illusione, non
voglio disturbarmi a calarmi quella dell'avvocato.
Le
ragioni che mi hanno spinto a queste oziose riflessioni sono due, piuttosto
semplici e particolari, e hanno dominato il mio deludente primo impatto con la
nuova fatica di Kenji Kamiyama, la mente storica dietro la continuità di Stand Alone Complex: la
resa straniante di un 3D "da videogioco", e la relativa povertà
tematica. Sono due critiche che ho visto ricorrere con una discreta frequenza
anche da altre voci, ma che personalmente non posso più abbracciare. Eppure SAC_2045 è tale e
quale a prima, non si è mosso di una virgola.
L'unica cosa a cambiare è stata la prospettiva.
È vero che a SAC_2045 mancano sia il fascino
dell'animazione tradizionale, che la prodezza tecnica del grande cinema
d'animazione 3D, vivendo in una terra di mezzo i cui vantaggi non sono forse
immediatamente ovvi. È vero che gli attori si esibiscono a volte in movimenti
un po' rigidi, ed è vero che sembra di guardare un videogioco. Qui il primo
problema: sappiamo bene che la capacità tecnica ha tanto a che fare con l'epoca
quanto con il budget, che produzioni che non siano Pixar hanno il diritto di
esistere, ma soprattutto che alcune delle nostre emozioni più vivide ci sono state
consegnate da opere tecnologicamente primitive: se una tecnica più complessa
apre nuove porte espressive, l'arte anteriore non ne viene certo declassata, e
possiamo commuoverci con facilità di fronte a dei blob di pixel che viaggiavano
su macchine a 8 bit. Né credo sia questo il momento di storicizzare: se oggi,
nel 2020, mi si può stringere il cuore di fronte ad alcune scene di Final
Fantasy VII, non vedo alcuna ragione per cui la prestazione tecnica
di SAC_2045 non dovrebbe essere più che adeguata a veicolare i
propri intenti artistici fino all'ultima goccia. Una scheda video diventa
desueta: i film e i videogiochi, in quanto lavori artistici, non lo fanno più
degli affreschi e dei mosaici. E detto ciò, superato lo straniamento iniziale,
mi sono sorpreso ad apprezzare questa resa 3D, proprio come avevo fatto, sia
pure con maggiori sforzi, con Saint Seiya e Ultraman.
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| Per esempio, quando guardo questo screenshot mi entra sempre qualcosa in un occhio. |
L'innesco è stato una domanda: "Se questa scena fosse realizzata con
l'animazione del SAC originale, come sarebbe?"
A quel punto mi sono reso conto di quella che mi sembra ora una tremenda
ovvietà: con la CGI è più difficile farla franca. Un fondale fermo e una bocca
animata con tre frame, qui non sarebbero accettabili. Ed è stato sempre allora
che mi sono accorto di quanto movimento ci fosse, di quanto vivace e plastica
sia questa nuova resa, che sia il vento tra i capelli di Motoko, o lo spargersi
di detriti sul terreno. E ancora più in là, vivissimo, il gusto registico
di Kamiyama funziona esattamente come ha sempre fatto nelle sue precedenti
interpretazioni di Ghost in the Shell. Oltre le primissime puntate,
l'azione si fa più tesa, i ritmi più lenti, le atmosfere più pensose, e se
nelle prime battute ero stato portato a chiedermi dove fosse SAC in
questo SAC, eccolo lì. Il che mi porta alla seconda perplessità:
quella tematica.
Se i più conoscono Ghost in the Shell nella sua
interpretazione di Oshii, e cadono facilmente nell'errore di considerarlo un
calco di qualità cui confrontare ogni altra produzione del franchise,
incredibilmente è con SAC e SAC 2nd GIG, che SAC_2045 può
confrontarsi, se proprio ci tiene. In Stand Alone Complex gli
ambienti urbani sono più luminosi e quotidiani, c'è più del poliziesco e meno
del thriller psicologico, c'è azione sciocchina, ci sono gag e battute. Ti lasciano
lì per mezz'ora in preda a dubbi esistenziali, del resto è un anime, ma sono
gag pur sempre.
Il fatto è che SAC_2045 inizia più disimpegnato che
leggero, e gli eventi cominciano ad addensarsi attorno a tematiche di peso solo
dopo un'ora o due di visione. Una scelta che inizialmente mi aveva lasciato
interdetto, ma che ora credo di poter spiegare facilmente: laddove la storia
di SAC procedeva con una forte cadenza episodica, senza
rinunciare ad alcuni importantissimi "filler", qui l'arco narrativo è
più orizzontale, e la soddisfazione che nelle vecchie serie fioriva alla fine
di ogni episodio, qui va ricercata a fine stagione. Anzi, alla fine della
prossima, visto che ne è stata confermata una seconda.
Resta vero che SAC_2045 sembra un videogioco (ma sono cose
brutte, i videogiochi?) e resta vero che ci mette un po' a tirare in ballo
l'identità, il postumanesimo e i diritti dei lavoratori, ma se devo scegliere
tra due prospettive, preferisco quella che meglio mi permette di apprezzare gli
intenti degli autori e di trarne l'esperienza più positiva possibile.
Diversamente mi sentirei come uno che leccasse un limone e lo gettasse via
schifato, anziché fare lo sforzo di tagliarlo e imparare ad apprezzarne le
qualità. L'ho anche pagato quel limone, e voglio tirarne fuori il massimo, non
solo per amore dell'arte e per la qualità del mio tempo, ma anche, perché no,
per tirchiaggine.


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